PASQUA MAURO
La
molteplicità di ipotesi avanzate sulle cause della dislessia evolutiva è indice
di un grande interesse del mondo della scienza per questo fenomeno. Il
linguaggio, ossia la capacità della specie umana di rappresentare in simboli il
mondo attraverso le parole, è assolutamente inseparabile dalla vita mentale
dell’uomo. Quasi tutti gli studi si sono rivolti alla dislessia sia per la
portata drammatica dal punto di vista sociale e della comunicazione, sia per la
sua maggiore frequenza rispetto agli altri disturbi dell’apprendimento.
Sulle
cause della dislessia evolutiva si è discusso molto e le difficoltà di
apprendimento sono state attribuite, nel corso del tempo alle cause più
disparate. Le diverse ipotesi si sono di volta in volta contrapposte e
alternate secondo le tendenze scientifiche dominanti. Di tutte le tesi avanzate
nessuna sembra per ora da scartare e la diversità pone in evidenza la
complessità dei processi di apprendimento.
Le
numerose ipotesi e le incertezze circa il prevalere di una sull’altra, le
abbiamo riassunte in alcune domande, che costituiscono i brevi titoli dei
paragrafi che seguono.
La
dislessia evolutiva è un problema di vista o di udito?
Le
ipotesi di deficit percettivo-sensoriali e i processi fonologici.
Una
delle ipotesi meno recenti, ma che non è stata mai abbandonata, ritiene che le
difficoltà di lettura abbiano origine da un cattivo funzionamento dei processi
visivi. E’ un dato di fatto che i bambini con questa difficoltà compiono
con gli occhi dei movimenti rapidi e diversi da quello dei lettori più abili.
Tale ipotesi sembra però smentita dal fatto che i bambini dovrebbero commettere
errori solo nelle prove che sollecitano i processi visivi, mentre presentano
scarse prestazioni anche nelle abilità linguistiche.
Margaret
Livingstone ha ripreso quest’ipotesi su base neurologica nel 1991, dimostrando
come le risposte delle aree visive a stimoli luminosi a sequenza rapida e con
basso contrasto siano ridotte. Ciò sembra dovuto al fatto che il sistema
magnocellulare, specifico per la trasmissione della informazioni visive dalla
retina ai neuroni della corteccia occipitale, risulta disorganizzato nei suoi
strati e con cellule più piccole del normale nelle persone dislessiche.
Pochi
anni dopo, Guinever Eden, utilizzando la risonanza magnetica funzionale per
immagini, ha rilevato che nei dislessici le immagini visive in movimento
attivavano solo una delle aree linguistiche, quella di Broca, e non anche
quella di Wernicke e l’insula, come invece avveniva nel gruppo di controllo.
Nel caso di punti in movimento era invece l’area visiva V5 a non essere
attivata.
Per
altri studiosi la dislessia deriverebbe dalla difficoltà di inibire gli stimoli
visivi e orientare l’attenzione in modo selettivo da sinistra a destra: il
ragazzo dislessico avrebbe un campo visivo attentivo troppo ampio in cui gli
stimoli periferici andrebbero ad interferire con la discriminazione visiva
creando un problema di affollamento di stimoli. Sembra che i lettori dislessici
percepiscano in modo meno chiaro rispetto agli altri lettori gli stimoli che si
allontanano leggermente dalla fovea, viceversa percepiscano troppo
distintamente gli stimoli alla periferia del campo visivo, rendendo confusa la
discriminazione visiva.
Queste ricerche si
affiancano a quella di Paula Tallal sui segnali uditivi rapidi e
rallentati. L’ipotesi è quella che i problemi specifici di linguaggio e
dislessia abbiano origine in un difetto uditivo. Pur sentendo perfettamente i
suoni, questi bambini hanno difficoltà perché il loro cervello non elabora
correttamente i suoni, li confonde e sovrappone. I suoni acustici rapidi, come
le consonanti, non riescono ad essere decodificati, vengono confusi e
immagazzinati in rappresentazioni improprie del fonema-suono. Si genererebbero
così gli errori nella conversione mentale dei suoni in lettere e viceversa.
Si ipotizza una
“disconnessione funzionale” (o connessione disturbata) fra i centri cerebrali
deputati alla decodifica della lettura. Tra le varie articolazioni di questa
teoria, quella fonologica (deficit del processamento fonologico) sembra
essere tra le più accreditate da un punto di vista delle attuali evidenze
scientifiche; essa descrive la dislessia come una difficoltà a manipolare i suoni (come fare lo spelling delle parole)
e a passare dal codice visivo a quello uditivo e viceversa. Il deficit sarebbe
inerente alla capacità di convertire i caratteri ortografici in
rappresentazioni fonologiche che vengono poi abbinate al loro significato
lessicale.
Tra i ricercatori vi è sempre più consenso attorno all’idea che la
dislessia non riguardi solo la struttura fonologica per la pronuncia delle
parole e la scomposizione dei fonemi, ma anche livelli superiori del sistema
linguaggio, quali quelli dell’elaborazione semantica e sintattica. Le
difficoltà a livello inferiore, fonologico, comporterebbero per tanto
conseguenze anche a livelli superiori.
E se fosse solo questione
di tempo?
L’ipotesi dell’integrazione
e dell’automatizzazione delle funzioni.
Una linea di ricerca più recente ha spostato
l’interesse sull’integrazione dei diversi processi cerebrali che elaborano
l’informazione. Uno studio di Khami sui bambini dai 5 ai 9 anni con difficoltà
di apprendimento ha presentato la cattiva lettura legata non tanto a difficoltà
di associazione e di riconoscimento dei diversi stimoli visivi o acustici,
quanto all’elaborazione simultanea di tutte le informazioni che vengono prese
in esame. Questi bambini riescono bene nei compiti associativi, ma hanno
bisogno di un tempo superiore per eseguirli. Secondo quest’ipotesi vi è una
mancata automatizzazione delle varie abilità alla base dei deficit di
apprendimento. Se un’abilità non è in automatico, serve maggiore sforzo per
eseguire il compito, che viene poi percepito come particolarmente difficile.
Fawcett e Nicholson hanno riportato le difficoltà di
lettura ad una più generalizzata difficoltà di apprendimento, che hanno
definito “paradigma del doppio compito”. Quando infatti i bambini con
difficoltà di apprendimento dovevano portare a termine due compiti in apparente
competizione (camminare in equilibrio su un’asse e contare all’indietro) non
riuscivano a ricorrere a strategie valide per affrontare il problema. Questo
varrebbe anche per le difficoltà di lettura in quanto l’automatizzione
permetterebbe di non utilizzare sufficienti risorse per svolgere il compito.
Parliamo davvero con l’emisfero sinistro?
Le ricerche neuroanatomiche.
Nel 1865 il neuroanatomo Paul Broca sintetizzava le
sue ricerche sul cervello con una concisa frase che passerà alla storia: “Noi
parliamo con l’emisfero sinistro”. Questi studi avevano dato avvio alle teorie
della “lateralizzazione delle funzioni cognitive”: l’emisfero sinistro è
specializzato nel linguaggio e nel
calcolo, ma anche nelle funzioni percettive e motorie che riguardano le vie di
mediazione linguistiche. L’emisfero destro invece “non saprebbe parlare” anche
se svolge una funzione per lo più visiva nel rappresentare le parole. E’ stato
poi individuato un possibile substrato neuroanatomico per la lateralizzazione
del linguaggio: la parte posteriore del lobo temporale, o planum temporale, è
più esteso a sinistra che a destra nella maggior parte dei soggetti normali.
Negli ultimi 15 anni sono state descritte in soggetti
dislessici, grazie ad esami autoptici, anomalie nella struttura neuronale
(ectopie), specialmente nell’area corticale dell’emisfero sinistro relativa ai
centri del linguaggio di Broca e di Wernicke. Studi con la PET (Tomografia a
Emissione di Positroni) hanno confermato tali ricerche, rivelando anche
un’assenza di asimmetria del planum temporale sinistro o un’asimmetria
invertita. Galaburda nel 1980 chiariva
ulteriormente le basi neuropatologiche della dislessia presentando dati
inconfutabili a dimostrazione che nella dislessia esistono “anomalie
architettoniche della corteccia” (Riva, 1999, p.31). Sulle cause di tali
anomalie strutturali, che sembrano essere relative a disordini di
migrazione cellulare, non vi è accordo
ma l’evidenza è assai forte.
Che la dislessia possa essere caratterizzata da
un’atipica specializzazione degli emisferi ha costituito una teoria forte che
ha avuto una decisiva influenza storica sulla diagnostica, sebbene non sia
sostenuta da dati sperimentali definitivi. In un lavoro del 1994, Lamm e Epstein
presentano risultati che dimostrano nei dislessici un vantaggio aumentato
orecchio destro / emisfero sinistro. Ciò provocherebbe una attivazione
esagerata dell’emisfero sinistro che porterebbe a una soppressione
dell’attenzione degli stimoli controlaterali e produrrebbe un malfunzionamento
dell’emisfero destro interferendo con il processamento fonologico dell’emisfero
sinistro.
Da questi studi sembrerebbe che nemmeno gli esperti
siano d’accordo nell’attribuire alle simmetrie cerebrali (o ad asimmetrie
inverse) i deficit di apprendimento linguistico. Le tecniche di visualizzazione
del cervello hanno ridimensionato la dominanza dell’emisfero sinistro nel
controllo del linguaggio, la famosa lateralizzazione di Broca. “Entrambe gli
emisferi - conclude su queste ricerche neuroanatomiche Biancardi (1999, p. 167)
- sono normalmente coinvolti nella verbalizzazione, cioè nel formulare e
comprendere il contenuto del linguaggio. Sarebbe un errore pensare che
l’emisfero cerebrale destro non sia attivo quando comunichiamo verbalmente….
Anche se è vero che un danno in questo lato del cervello non produce i disturbi
gravi di linguaggio provocati da lesioni all’emisfero sinistro”, come aveva già
osservato Broca. Se quindi noi non parliamo solo con l’emisfero sinistro, anche
le cause dei disturbi dell’apprendimento non saranno relative solo al
funzionamento e alla conformazione neuronale di questo emisfero.
Si tratta di un “destino” biologico?
Gli studi di genetica.
Le ricerche
recenti sull'argomento confermano l'ipotesi di un'origine costituzionale della
dislessia evolutiva: vi sarebbe quindi una base genetica e biologica che crea
una predisposizione al disturbo; su di essa contribuirebbe poi in modo
significativo l'ambiente nell'amplificare o contenere il disturbo.
Sebbene non
siano stati ancora precisati i meccanismi genetici esatti che produrrebbero
questa predisposizione, ci sono delle chiare evidenze a favore di
quest’ipotesi. Innanzi tutto si riscontra una tendenza alla familiarità, anche
se l’intensità del disturbo può essere notevolmente diversa. Nelle coppie di
gemelli omozigoti è inoltre molto frequente che entrambi i bambini siano
dislessici. La prova più drammatica è quella della tendenza della dislessia a
persistere nel tempo. Può eventualmente modificarsi, a volte attenuarsi, ma
continuando a persistere.
Un
genetista John DeFries, dell’Università del Colorado, ha prodotto prove non
solo relative alla familiarità ma anche alla probabilità che la dislessia sia
legata a una sequenza di geni di una specifica regione del cromosoma 6. Altri
studiosi hanno invece identificato “marcatori” su altri cormosomi, 1 e 15.
Secondo alcuni neuro psicologi ciò che verrebbe ereditato è una microscopica
lesione cerebrale.
Gerschwind
e Galaburda, si sono spinti fino a ipotizzare che la dislessia sia correlata ai
disturbi del sistema immunitario, essendo i marcatori usati per il cromosoma 6
in una regione del complesso immunitario.
Le
supposizioni e le prove sembrano moltiplicarsi in più direzioni, senza però
stabilire con certezza un rapporto di causa – effetto tra dislessia e fattori
genetici. Per quanto importanti tali prove non devono incorrere nell’errore di
dimenticare il ruolo dell’ambiente. Biancardi (1999, p. 178) giustamente
sottolinea: “nelle difficoltà di apprendimento, pur concordando su un’ipotesi
biologica, non ci si può fermare a questa osservazione, ignorando il contesto,
l’ambiente sociale, il mondo culturale, gli affetti e le emozioni in cui un
bambino nasce e cresce. Fattori che certamente hanno un ruolo nel facilitare o
nell’inibire le capacità di un bambino, quale che sia il suo profilo genetico”.
La
dislessia evolutiva è un disturbo isolato?
Teoria
connessionista vs innatista.
Come
abbiamo finora visto i lavori scientifici hanno come scopo quello di identificare
l’architettura neuro-psicologica del processo di lettura. Si ricerca un deficit
di alcune componenti del sistema di lettura riconducibile al cattivo
funzionamento di moduli innati, predisposti a uno specifico
apprendimento. E’ dalla “rottura selettiva” di uno o più di questi moduli che
deriva la dislessia, quale difetto di processamento dominio-specifico.
Questa
ipotesi è contrastata da quella connessionista, secondo cui le diverse
abilità sono il risultato di un processo di specializzazione funzionale che si
conclude con una modularizzazione, ossia con una sorta di esecuzione automatica
di una serie di microprocessi, ma che non sono specificate fin dall’inizio
(Stella 1996). Si ipotizza in questo modo come la predisposizione riguardi i
processi di codifica in generale e non uno in particolare.
Sembrano
contrastare l’ipotesi, che la dislessia sia una compromissione settoriale, i
dati sulla comparsa “a grappolo” dei disturbi specifici dell’apprendimento e
l’alta frequenza di “costellazioni di disturbi” di codifica. I disturbi di
lettura infatti si presentano frequentemente associati ai disturbi di
scrittura, o a compromissione del linguaggio verbale. Nel corso dello sviluppo
queste associazioni di disturbi tendono poi a diventare più deboli,
caratterizzandosi per una presenza più marcata in una delle abilità. I dati
clinici presentano una fase di sviluppo in cui il disturbo di decodifica
interessa tutte le abilità di acquisizione, seguito da una fase in cui il
disturbo si cristallizza in una delle abilità.
Tale
ipotesi, ricavata da dati clinici, si presenta coerente con i modelli di
ricerca delle cause della dislessia che ipotizzano deficit nei processi di
automatizzazione o che individuano le cause nelle difficoltà di processamento
rapido di stimoli acustici o visivi. Altri modelli di spiegazione, come quello
di un deficit della via fonologica o di lesioni cerebrali ereditate, sono
invece più concordanti con l’ipotesi innatista.
Per una conclusione: quali ragioni per una così ampia
varietà di ricerche che poco concordano?
La difficoltà di trovare una spiegazione unificante
alle numerose ricerche sulle cause della dislessia ha sicuramente una ragione
nel fatto che “le etiopatogenesi possono essere diverse in natura e
localizzazione” (Riva, 1999, p. 35). Con ciò si intende che una lesione o una
disfunzione in un punto qualsiasi del sistema produce il deficit.
Un’alterazione della struttura cerebrale, un’ipossia fetale, una lesione della
regione dell’insula possono essere tutte cause possibili di un unico disturbo.
A ciò va poi aggiunto un altro fattore cruciale di
diversità che è il tempo di acquisizione della lesione: l’impatto della lesione
sulla struttura e organizzazione delle funzioni cognitive è radicalmente
diverso se avviene in fase prenatale o a sviluppo già avviato e strutturato.
Gli studi sulle possibili cause della dislessia
focalizzano l’attenzione sui diversi sottotipi di disordine, originati dal
processo mentale non funzionante: la dislessia per difetto dei processi
visuo-verbali è un disturbo molto diverso da quello di un bambino dislessico
per disturbi uditivo-verbali.
Queste sono alcune delle ragioni per cui i risultati
delle ricerche, per quanto dettagliati e ottenuti con sofisticate tecniche
risultano numerosi ma non sempre concordanti.
La molteplicità delle cause ci rende consapevoli del
fatto che un disturbo dell’apprendimento sia una patologia neurologica
complessa, che necessita di un’indagine diagnostico-clinica e strumentale
adeguata. Va infatti individuato il meccanismo neuropsicologico responsabile
del disordine ma anche la causa biologica sottesa per poter fare una diagnosi
sufficientemente accurata.
Un’ultima nota in negativo. La diversità di vedute
sulle possibili cause della dislessia e l’incertezza sui modelli interpretativi
ha contribuito certamente alla scarsa diffusione delle numerose conoscenze
guadagnate in questi anni di ricerche. Conoscenze che contribuirebbero a
migliorare la qualità dello sviluppo dei bambini affetti da questi disturbi,
favorendo interventi educativi e didattici più adeguati. Solo ciò
permetterebbe, sia a livello familiare che scolastico, di evitare l’errore di
scambiare ragazzi con disturbi dell’apprendimento con scolari svogliati o che
vanno sottoposti a psicoterapia per superare difficoltà emotive o affettive,
confondendo in questo modo gli effetti psicologici del disturbo con le loro
cause.
Bibliografia
A. Biancardi, G. Milano, Quando un bambino non sa
leggere, Rizzoli, Milano, 1999.
D.
Riva, Le basi neurobiologiche dei disordini dell’apprendimento, in Giornale
di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva, 1999, n. 19.
G.
Stella (a cura di), La dislessia. Aspetti clinici, psicologici e
riabilitativi, Franco Angeli, Milano, 1996.
Portale
dell’Ospedale Bambino Gesù, Roma, Quali sono le cause della dislessia. Reperibilità
in http://www.ospedalebambinogesù.it/portale
Portale
dell’IPRASE del Trentino, La dislessia evolutiva. Reperibilità in http://www.iprase.tn.it/documentazione/dislessia